Ermanno Salvaterra in partenza per una nuova spedizione

di Giorgio Spreafico

Quando Jim Donini, Michael Ken­nedy, Jeff e George Lowe si arrampicarono per la prima volta lassù in stile alpino, anzi in stile capsula, tentarono qualcosa che come pietre di paragone forse (e non è detto) aveva soltanto il Changabang di Pete Boardman e Joe Tasker o l’Ogre di Doug Scott e Chris Bonington. Semplicemente impossibile immaginare qualcosa di più complicato, di più difficile sul piano squisitamente tecnico, e a una quota del genere poi. Come non bastasse, nessuna cordata era mai rimasta prima in parete per ventisei giorni filati avendo con sé cibo solo per quattordici, un po’ per la scelta di non mollare e un po’ per il fatto che a non mollare, e ciascuna per una settimana, erano state anche due spaventose bufere. «Sopravvivenza non scontata» ammise tornando devastato al campo base Donini, al quale una frase del genere era stata ispirata prima solo da un’altra montagna molto ma molto più famosa: il Cerro Torre. Quella squadra straordinaria schierava il meglio che il Nuovo Mondo potesse esprimere in una stagione memorabile del verticale. Gente visionaria capace di appendersi ai palloncini della sua fantasia e di credere possibile il più folle dei sogni, gente però anche concreta proprio come concreti sono il ghiaccio e la roccia, capace anche di mettersi alle spalle cento durissimi tiri di corda prima di rassegnarsi. Epica la scalata, epica la ritirata lanciata a duecento metri dalla vetta, con più solo le energie per tentare di salvarsi. Era il luglio del 1978 e se non sembra ieri è perché da allora è scivolata via una giovane vita. La montagna era il Latok 1, 7145 metri alti e magnifici sul ghiacciaio Choktoi, Karakorum, Pakistan. Una cima scovata grazie a una vecchia foto dei pionieri Eric Shipton e Bill Tillman. La via? La meravigliosa e infinita cresta Nord. Sono passati trentatré anni, ma la montagna e la sua linea magica naturalmente sono sempre lì. La prima, salita una volta soltanto: dal versante Sud, blitz della squadra giapponese di Naoki Takada nell’estate del ’79. La seconda, la cresta, passata indenne attraverso il tiro incrociato e l’assedio di non meno di venti spedizioni. Ci ha provato invano la meglio gioventù alpinistica di mezzo mondo e di più generazioni, ma il risultato non è cambiato. Tutti respinti: altri americani, e poi francesi, polacchi, austriaci, canadesi, norvegesi, inglesi, neozelandesi, argentini, giapponesi. Di più: nessuno è riuscito di salire più in alto della prima cordata, il che già di suo è stupefacente visti i vertiginosi progressi conosciuti da tecnica di scalata e materiali. Mancavano giusto gli italiani, all’appello, ma è arrivato anche il loro momento, e per la squadra che in gran segreto si è coagulata attorno al progetto muovendo da quattro diverse vallate alpine l’aria si è fatta elettrica. E’ stato Ermanno Salvaterra, il trentino indiscusso re del Cerro Torre, uno che sceglie le sue pareti come farebbe un cercatore d’oro, anzi di diamanti, ad essere folgorato da quel nuovo bagliore qualche mese fa. La bellezza e anche più il mistero e la fama di inviolabilità del settemila del Karakorum e del suo sperone settentrionale gli si sono appiccicati ai pensieri. Perché sorpren-pitava un’altra occasione così? Del Latok non sapevo tutto quello che so adesso, naturalmente, e cioè che è un problemone. Così è normale che oggi sia anche un po’ preoccupato, però non troppo. La cosa è molto ambiziosa, ma la squadra è super, è un onore per me farne parte. Con Bruno vedremo di far la nostra parte, questo è sicuro». “Bruno” non chiede altro, a questo punto. «A dirla tutta – ci spiega Mottini, 24 anni, dalla sua Livigno – all’inizio non avevo capito bene, non sapevo che su quella cosa ci avessero sbattuto il naso così in tanti. Ho visto una linea fantastica e non ho pensato ad altro: che roba, che roba. Quando poi mi sono documentato, allora mi sono stragasato. E’ una fortuna già poterci provare, mai avrei potuto neppure sognare che la mia prima spedizione avesse un obiettivo del genere. Invece…» Invece è andata proprio così, perché il livignasco – in bacheca un titolo di campione europeo e un bronzo ai mondiali di scialpinismo, molte vie classiche ben scelte sull’arco alpino (con la perla della Nord dell’Eiger risolta in dieci ore ai primi dello scorso febbraio insieme al comasco Alberto Trombetta, di Grandate) – proprio lui è l’altra scommessa dei “vecchi” della spedizione. Andrea Sarchi la spiega così, la cordata con quelli che il gruppo più agè chiama “i bambini”: «Ho scelto due ragazzi molto forti, che ho avuto modo di valutare in montagna ai nostri corsi e che hanno un passato da agonisti e dunque un atteggiamento mentale e carattere particolari. Ci servirà la loro gioventù, il loro entusiasmo e anche questa capacità di non mollare, sul Latok, perché che troveremo duro è poco ma sicuro». Se a qualcuno avesse dei dubbi, del resto, potrebbe dare un’occhiata all’elenco degli alpinisti che ci hanno provato (e magari riprovato) inutilmente. Incrocerebbe, tra gli altri, i nomi di Doug Scott, Simon Yates, Robert Schauer, Catherine Destivelle, Wojciech Kurtyka, Fumitaka Ichimura, dei fratelli Danien e Willie Benegas, di Maxi­me Turgeon, Remy Martin e Doug Cha­bot. C’è di più. C’è, e colpisce, il fatto che nella storia dei tentativi alla cresta nord del Latok compaiano molti alpinisti con un posto anche nella storia o nella cronaca, di sicuro nei sogni, che hanno avuto come fulcro il Cerro Torre e le straordinarie guglie del suo gruppo. Oltre a Donini e Kennedy, draghi come Martin Boysen, Colin Haley, Josh Wharton, Bean Bowers. Quando lo facciamo notare a Salvaterra, che più di ogni altro si identifica con la montagna simbolo della Patagonia, lui ammette che sì, la cosa lo ha colpito a sua volta. «Del resto – chiarisce – io al Latok ci sono arrivato proprio per via dei nomi schierati in quella prima formidabile squadra. Si vede che abbiamo un certo modo di guardare le montagne, noi “patagonici”, si vede che abbiamo la stessa mania di cacciarci in grossi guai». Quanto grossi, sul piano tecnico? «La cresta ha uno sviluppo superiore ai 2500 metri e non ha niente a che fare, se non la quota, con la maggior parte delle scalate himalayane. Ogni tiro è da scalare davvero, difficoltà continue e molto sostenute. C’è di tutto, e c’è anche qualcosa che non è del tutto normale, ma proprio speciale: sezioni verticali o addirittura strapiombanti coperte di neve». Qualcosa che ricorda per l’appunto il Cerro Torre? Ermanno ride: «Ecco, appunto». Strategia? «Il fatto che a essere arrivati più in alto di tutti siano stati proprio i primi ad averci provato ci fa pensare, o forse solo sperare, che almeno qualcuna delle altre squadre possa avere sbagliato qualche mossa» dice Andrea Sarchi. Che aggiunge: «Quanto a noi, cercheremo di essere il più possibile leggeri ma anche in condizione di autonomia in parete per parecchi giorni». E di nuovo Salvaterra: «Se ci prende il brutto, vorrà dire che proveremo a insistere restando su senza scendere, per rilanciare anche solo con un paio di tiri e poi ripiegare allo stesso bivacco, risalendo poi sulle corde. Pare che il Latok e quel versante in particolare abbia un meteo piuttosto complicato: c’è chi ci è rimasto 40 giorni trovandone solo due di bello…». Di nuovo aria di Patagonia, in qualche modo, ma su una montagna che è alta quasi due volte e mezzo il Cerro Torre e che al dunque costringe a riempire i polmoni di respiri già “sottili”. Sarà una grande sfida, ecco cosa sarà. E se è vero che le imprese memorabili cominciano proprio nel momento in cui smettono di essere considerate impossibili, questo – comunque vada – è un buon momento per l’alpinismo italiano. Metti che dopo trentatré anni e più di venti spedizioni respinte il Latok 1 si sia stufato di fare il bastian contrario, metti che “i vecchi e i bambini” – come li canterebbe Francesco Guccini, cedendo al plurale – abbiano la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, metti che… (a cura di Giorgio Spreafico – g.spreafico@laprovincia.it)

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