A CABELEIRA (FRAGMENTOS) e I CAVÌ (Tuchèi)

A CABELEIRA (FRAGMENTOS) e I CAVÌ (Tuchèi)

A CABELEIRA (FRAGMENTOS)

Eu nacín nun país verde fisterra que vagou errante tras manadas de vacas.

Incerto fillo son das tribos móbiles que só se detiveron cando se lles acabou o mundo.

Non teño outras raíces que as da espora nin outra patria habito que a do vento.

Síntome da estirpe daqueles pobos nómades que nunca se constituíron en estado.

O noso espírito coñeceu o abismo e o sentido telúrico do contorno natural.

A nosa historia é a dun pobo que perdeu o norte e se confundiu cos bois.

Pero eu recuperei o norte no medio do naufraxio fluíndo sensualmente da cabeleira da lúa.

E a inmensa cabeleira é labirinto no que soamente falo a quen eu amo.

Claudio Rodríguez Fer

 

I CAVÌ (Tuchèi)

Su nasù ‘n tin pais vert finisterre sghizumbún dre a na scungiübla di vachi.
Magari fiol dali tribù girunduni chi s’ha nfermà numa quanca ghe finì la tera dinanch.
Nu go aftri radís chi li spori, ni go aftra gent ca nul sia ‘l vent.
Mi sentu di cui chi na casa i ga l’ha “nvarghilöc” e nu i ha mai terà nsema n stato.
Um cugnusú la not da li orbadi e l’esar tera viva dali nosi bandi.
La nosa storia l’e cula di gent chi s’ha pers e miscià cul bistiam.
Ma me m’ho gatà n mez al temporal ca sbrisagava fo pian dal co di na luna scaviuna.
E tuch cui cavì, gramusel ‘ngatià, l’e nduca i parlu numa a chi ca i voi ben.

Traduzion ‘n pinzulèr di Maria Maffei

 

Alcune osservazioni:

  1. Nell’originale l’autore si riferisce a “manadas de vacas”, traducibile in italiano con il nome collettivo “mandrie”: in un primo momento, verrebbe da pensare che la lingua di una popolazione che pratica l’allevamento dalla notte dei tempi abbia una ricchezza lessicale imparagonabile sul tema. Eppure, il traduttore si scontra immediatamente con l’assenza di un termine per indicare il concetto di “mandria”. La cosa, come una conversazione con Carla Maturi – bibliotecaria del Comune di Pinzolo e filosofa – ha illuminato, si spiega nella peculiare maniera di allevare del posto, ovvero, limitata a quei quattro o cinque capi necessari al sostentamento della famiglia. Il che rende, il concetto di “mandria”, collegato a una prassi dettata dal mercato e dal commercio, totalmente superfluo. Da qui la traduzione, in dialetto, “scungiübla di vachi”;
  2. Nemmeno il concetto di “estado”, in italiano “stato”, ha un suo equivalente in dialetto: l’orizzonte d’attesa del pinzulèr, infatti, non ne abbisogna in nessun momento, poiché il punto di riferimento non si spinge oltre la comunità in cui vive, individuando l’istituzione di riferimento nel comune, il “cumün”. Essendo lo stato una dimensione assente anche nella frase evocata, tuttavia, riteniamo più opportuno conservare “stato”, poiché “cumün” risulterebbe semanticamente e concettualmente ambiguo e fuorviante;
  3. Nell’originale parole come “abismo” e “naufraxio”, in italiano “abisso” e “naufragio”, sono assi portanti: accomunate dall’isotopia marittima, evocano lo stretto legame identitario tra la lingua, le persone che la parlano e l’ambiente marino che circonda e caratterizza la Galizia. In dialetto pinzulèr, non tanto la parola, quanto il concetto e, più in generale, l’ambito semantico legato al mare è completamente inutile, pertanto, inesistente. Come rendere l’idea di immensità e infinitudine dell’ignoto che tali immagini evocano? A mio avviso, attraverso l’ambito semantico del bosco: “abismo”, così, diventa “orbadi”, termine che indica il burrone – specchio di quella stessa immensità ignota; mentre “naufraxio” diventa “temporale”, coadiuvando l’effetto di una stessa condizione metereologica avversa;
  4. “Laberinto”, in italiano “labirinto”, non esiste in dialetto. Per rendere l’idea di luogo intricato, ingarbugliato, difficile da percorrere e risolvere, mi sono rifatta a un’immagine che si basa sullo stesso concetto e, al contempo, è emblema della nostra tradizione nella misura in cui ogni nonna “guciava”, ovvero, lavorava a maglia. Mi riferisco al gomitolo di lana, da cui si mutua la traduzione di “laberinto” con “gramusel ‘ngatià”, letteralmente “gomitolo aggrovigliato”.
Maria Maffei
Maria Maffei