Afferrare il sogno. Tatra – Dolomiti
Tutti noi l’abbiamo provato. Un sogno meraviglioso e all’improvviso il risveglio. Il mondo fantastico svanisce, fugge via. Sentiamo ancora l’atmosfera, il fascino di quel sogno, ma non riusciamo a descriverlo, non riusciamo ad afferrarlo.
Tutto iniziò nel parcheggio di Tolmezzo, dove eravamo giunti dall’autostrada. Anno 2007. Era la prima volta che mi recavo in Italia, la prima a volta così in profondità dall’altra parte dell’ormai scomparsa da anni “cortina di ferro”. Ricordo un vento forte, caldo. Soffiava dalle Dolomiti, che non si vedevano ancora.
Credevo che la vecchia Unione europea fosse un mondo in cui non solo regnava il comfort assoluto, ma anche decisamente noioso, in cui tutto era organizzato secondo gli stessi standard della civilizzazione tecnica, in cui niente mi stupisce, in cui non trovo nessun alimento per l’immaginazione. Da Tolmezzo la nostra strada conduceva verso ovest, in direzione delle Dolomiti. Percorremmo un buon tratto di una tortuosa strada di montagna e la convinzione con cui ero partito dalla Polonia gradatamente veniva meno. Vecchie case in pietra grezza, persiane in legno con resti di vernice scolorita, strette viuzze di piccoli paesini che ignorano completamente la necessità contemporanea dell’auto. Il verde chiaro di un prato tagliato di fresco sul fondo di una scura parete boschiva. E infine, oltre dei crinali arrotondati, all’orizzonte si stagliavano slanciati picchi rocciosi dalla forma irreale. Prima credevo che tali montagne non esistessero in natura, che fossero frutto dell’immaginazione di antichi maestri della pittura, che chiudevano la propria composizione con uno sfondo caratterizzato da un paesaggio inventato.
Iniziai a sospettare che stavo entrando nel mondo delle fiabe. Ma vi erano sempre il liscio asfalto, i cartelli stradali, le gallerie, i viadotti, i pali di ferro della trazione elettrica che si inerpicavano sui versanti della montagna. Soltanto verso sera presi consapevolezza. Quando lasciammo l’auto parcheggiata nella piccola piazzetta alla fine della strada a Col di Pra, quando entrammo nel faggeto umido per la pioggia, compresi che quel mondo appartenente a un sogno rimasto incompleto si trovava qui da qualche parte, a portata di mano. Poi, quando ormai erano calate le tenebre e stavamo percorrendo la strada nel bosco con lo zaino in spalla, accadde un fatto da nulla che rafforzò la mia convinzione. Avevamo spento le lanterne, per non consumare la batteria. Quando la vista non invia molte informazioni, si acuiscono gli altri sensi. Inaspettatamente sentii quell’odore, forte, caldo, animalesco. Accesi la lampada frontale. Sul ciglio della strada, tra due piccoli abeti, c’era un asinello. Non c’erano abitazioni né anima viva là intorno, eppure le mie orecchie percepirono una delicata vibrazione che giungeva da qualche parte nell’oscurità. Inviai un fascio di luce in quella direzione. Un grande cane nero giaceva sugli aghi degli abeti e ringhiava piano con una voce sempre più intensa. Avevo violato il suo territorio, dovevo tornare sui miei passi con cautela. Tirai un respiro di sollievo, ma non perché il cane non mi aveva morso. Respiravo, perché non si erano avverati i miei timori circa il viaggio sulle Dolomiti. Pensai: queste montagne vivono. Vivono la loro vita segreta, primitiva, con persone, animali e piante. Non sono un’immagine immobile e artificiale su un opuscolo turistico.
Dopo incontrammo il proprietario dell’asino, anzi, per l’esattezza, di una piccola mandria di asini. Non so se sia stato il sentiero che spariva tra l’erba e le rocce sotto i valichi di Gardes o piuttosto il delicato odore del fumo del legno di conifera a condurci ad una casetta in pietra, la cui parete posteriore era addossata a un grande masso. Davanti alla casa, degli asini giocosi, facevano le feste come i cani, per farsi accarezzare. Sbirciammo all’interno, illuminato solo da alcuni pezzi di candela e dalla fiamma di un focolare acceso. – Buona sera, – Buona sera. Il proprietario, un po’ confuso per la visita inaspettata di questi stranieri, non era loquace, come del resto sua figlia, una ragazzina magra. Ma dietro quel silenzio non si celava inimicizia, sentivo un atteggiamento positivo nei confronti del mondo, della gente, di noi stessi, delle montagne, degli animali.
Compiamo adesso un breve viaggio nello spazio e nel tempo. Inizio degli anni settanta del XX secolo, i Tatra, le più alte montagne della pianeggiante Polonia. In programma c’era una lunga e ambiziosa escursione, fuori dai sentieri battuti. In parte lungo la frontiera cecoslovacca. In zona proibita. Non sono montanaro di nascita, avevo appena scoperto i Tatra, per me erano qualcosa di segreto e ancora oggi sento un brivido di emozione per avere violato le leggi dello stato comunista. L’alba sulla radura di Hucisk, freddo e nebbia, nonostante fosse estate. Un ponticello sul Potek Chochołowski, una piccola cappella tra gli alberi dalla parte sinistra. Un lembo di bosco, delle radure, una vecchia baita ricurva, come un vecchio, di cui oggi non c’è più traccia. La valle superiore si restringe bruscamente, il ruscello si fa strada e la strada ruscello. Si può attraversare per il corso d’acqua su sassi scivolosi, oppure inoltrandosi nel giovane bosco di abeti sulla scarpata. Eravamo qui per la prima volta, ma tutto era già stato programmato. Troviamo a colpo sicuro una gola con una stradina sassosa che si inerpica sul versante scosceso. Alcuni tornanti e arriviamo a Polana Przysłop. Il gruppo di baite appare placido, come se la pastorizia, ritenuta un settore arretrato dell’economia, indegna di una società che sta costruendo il socialismo, non fosse mai stata abolita dai Tatra.
Sulla fitta erba abbonda la rugiada, tanto che poco dopo le scarpe sono umide. Di nuovo il bosco, poi un burrone argilloso coperto di impronte di piccoli zoccoli. Un odore penetrante di sterco di pecora. Giungiamo in un esteso pascolo di montagna, proprio quando il sole fa capolino, liberandosi dalle nebbie mattutine. Ricordo che, tra gli obliqui raggi del sole, le travi nodose con cui era costruita la baita assumevano un colore arancione e l’erba un verde brillante. Dalla porticina prima uscì un pastorello con i capelli neri scarmigliati, poi dalle profondità di quella costruzione arcaica uscì il capo pastore, con un cappello piatto in testa. Entrambi non si radevano da tempo. Non avevano neppure esagerato con la pulizia. Insieme alla baita e agli animali sembravano uscire da un’incisione del diciannovesimo secolo. Solamente i colori vivaci dell’ambiente circostante li inserivano nell’età contemporanea. Negli occhi del pastore scorsi la paura della milizia e la determinazione di non dare via quel suo scampolo di libertà. Tuttavia si resero presto conto che non dovevano temerci. Che sia noi che loro eravamo dalla stessa parte della barricata e i funzionari di uno stato inviso erano il nemico comune. Noi, i giovani ribelli di città, loro, i montanari, impegnati a salvare il secolare ordine delle attività di montagna. Rimanemmo qualche minuto davanti alla baita, tra le pecore scampanellanti e belanti, tra l’odore del fumo e gli escrementi degli animali, inchiodati a quel posto dall’ardore del sole di una giornata afosa al suo inizio. Non ricordo la conversazione, non si trattò che di un breve scambio di parole. Appartenevamo a mondi diversi. La comprensione nasceva nella sfera extraverbale, lo sentivo distintamente, il filo della solidarietà, la comunione con persone per le quali sono la libertà e le montagne a contare.
Poi, quando giungemmo sulla cresta, soffiava il vento, caldo e impetuoso, come tanti anni dopo a Tolmezzo. Il vento portò le nubi, arrivò la tempesta, cominciò a piovere a dirotto. Ma tutto questo era secondario, col pensiero riandavo continuamente a quel momento di sole cocente davanti alla baita. Tornai indietro e cercai di penetrarvi, come si vuole tornare in un sogno rimasto incompleto.
Negli anni seguenti provai, e ancor oggi provo, delle sensazioni intense legate ai Tatra. Non ho spazio e tempo sufficienti per dilungarmi. Dico soltanto che quelle più importanti, più preziose blandivano il regno del sogno fantastico, che fugge, che non è possibile afferrare.
Trent’anni fa mi stabilii ai piedi dei Tatra. Cinque anni fa iniziai a dirigere un giornale sui Tatra. Due anni fa, senza troppo entusiasmo e mosso piuttosto dalla curiosità, decisi di trascorrere le vacanze in un posto diverso dai Tatra. Scelsi le Dolomiti, in Italia. Il mio stupore fu sincero e profondo. Non pensavo che potessero esistere altre montagne capaci dello stesso potente influsso dei Tatra. Scoprii che il mio sogno sui Tatra, rimasto incompleto, da qualche parte in remoti recessi della coscienza si congiunge con un sogno analogo sulle Dolomiti. Rientrato a casa dalle vacanze, iniziai ad approfondire l’argomento, esplorare su Internet, raccogliere informazioni sulle montagne da cui ero appena tornato. Mi imbattei nella bella rivista “L’Eco delle Dolomiti”. E di nuovo lo stupore che qualcuno, che una redazione italiana distante migliaia di chilometri, proprio come noi nella nostra rivista trimestrale “Tatry”, unisce con successo nello stesso periodico due temi contrapposti, la cultura e la natura. Per inciso, è proprio questo singolare legame della gente con la natura, della cultura con la natura, la chiave per comprendere la particolarità sia delle Dolomiti che dei Tatra.
(…)Avviammo una collaborazione. La pubblicazione reciproca di informazioni sulle nostre riviste, lo scambio di articoli, una campagna comune. Loro hanno pubblicato testi su Zakopane e i Tatra, noi abbiamo dato alle stampe due articoli di autori italiani sulle Dolomiti. Loro hanno deciso di ricordare il centenario del soccorso di montagna sui Tatra, che sarà celebrato solennemente nell’autunno di quest’anno a Zakopane. Noi abbiamo aderito alla campagna per l’inserimento delle Dolomiti nella Lista del Patrimonio Mondiale Naturale dell’UNESCO. Non per fare un piacere, ma perché convinti. Sono certo che queste incredibili montagne meritino di essere considerate una preziosa particella del patrimonio mondiale dell’umanità. Sono molte le idee che abbiamo per la nostra collaborazione e teniamo le dita incrociate perché si realizzino.
Torno alla fine di quel sogno rimasto incompleto. Trattiamolo come il simbolo di un prezioso ideale, a cui vale la pena e occorre puntare, che tuttavia non verrà mai completamente raggiunto. “L’Eco delle Dolomiti” ha tale ideale in vista e vi si è avvicinato molto più di qualsiasi altra rivista a me nota. Questo ideale è un regionalismo aperto, la redazione non lo definisce così, ma in pratica è questo che realizza. L’amore per tutto ciò che è nostrano, dalla locale razza di mucche della Val Rendena fino alle cime rocciose delle Dolomiti di Brenta, non impedisce loro di essere aperti nei confronti di altre montagne, altre culture e, soprattutto, altra gente. Ecco perché questo legame tra la devozione a ciò che è locale e l’apertura è così prezioso e insolito. Il regionalismo favorisce la varietà, la vivacità, la succosità dell’odore e il sapore del mondo. La cultura uniformizzata, oppure come si suol dire oggi, globalizzata, è grigia e insignificante, priva di odore e sapore. Niente quindi di più semplice che scegliere il regionalismo. Ma qui sta il problema: l’amore per tutto ciò che appartiene al proprio mondo in genere va di pari passo con l’avversione, la sfiducia e addirittura l’odio verso tutto ciò che è estraneo. (…) Per questo collegare vivaci regionalismi con una benevola apertura verso gli altri è un compito assai arduo, ma è anche la migliore idea per costruire il mondo contemporaneo. Un mondo che possa piacerci, per il quale proviamo desiderio. La redazione de “L’Eco delle Dolomiti” lo sta già facendo. Uniamoci a loro.
Marek Grocholski – direttore della rivista polacca Tatry
Nicolas Boldych, saggista e liguista francese
Vittorino Mason, alpinista e scrittore veneto