La causa principale della morte di alcune stazioni da sci non è il riscaldamento globale ma l’assurda speculazione edilizia del passato…
In questi giorni vengono resi noti gli ultimi numeri della stagione invernale 2022/23. Anche per le 12 valli che fanno parte del consorzio Dolomiti Superski è stata una stagione da record, superiore anche all’ottimo inverno del 2018/19. Stesse cifre, o addirittura superiori, sono quelle rese pubbliche in occasione delle assemblee delle società funivie Folgarida-Marilleva, Campiglio e Pinzolo (ultima in ordine di tempo, sabato 16 settembre, con ricavi in crescita del 30%). Un inverno record nonostante le previsioni molto pessimistiche dell’autunno scorso, quando sulla stampa locale e nazionale si parlava di stagione a rischio per l’aumento dei costi energetici e per la guerra in Ucraina. Addirittura qualche stazione marginale (Panarotta) aveva deciso di non aprire.
E anche oggi, nonostante i bilanci record delle stazioni top, molti opinionisti continuano a dichiarare ormai morto il turismo legato allo sci, non distinguendo da zona da zona. Si veda, ad esempio, queste due notizie selezionate da Google New in estate:
Leggendo certi titoli di giornale, sembra quasi che il riscaldamento globale abbia ormai decretato la morte dello sci e con essa, il conseguente spopolamento di intere vallate alpine che dovrebbero subito reinventarsi e abbandonare il modello di sviluppo seguito negli ultimi 50 anni. La realtà è ben diversa. Quelle che stanno morendo, anzi sono già decrepite, sono decine di stazioncine con pochissimi impianti, quasi sempre realizzate da speculatori, in molte zone delle Alpi e degli Appennini. Queste località sono “morte” già a partire dagli anni Ottanta, quando gli inverni senza neve sono aumentati (senza precipitazioni e senza impianti di innevamento programmato) e soprattutto quando sono cresciute le esigenze degli sciatori, sempre più attratti da vasti comprensori sciistici. Le piccole località sono state spazzate via anche dai crescenti costi legati all’ammodernamento e messa in sicurezza degli impianti di risalita e ai costi legati alla realizzazione delle piste, che lo sciatore richiede sempre più ampie, perfettamente approntate e innevate. Certamente serve molto acqua per la produzione di neve, in particolare quando si devono sfruttare i pochi giorni di freddo intenso, ma la quantità di acqua impiegata è enormemente inferiore utilizzata in agricoltura. Basta un dato: una medio/piccola azienda risicola del Vercellese (40 ettari; 10.000 metri cubi ad ettaro = 400.000 metri cubi) consuma ogni anno all’incirca la quantità di acqua che le Funivie Campiglio utilizzano, negli anni di scarse precipitazioni, per preparare e mantenere per tutto l’inverno tutte le loro piste (il bacino Montagnoli ha una capacità di 200.000 metri cubi). Acqua che in primavera si infiltra e va a rimpinguare le falde in zona, non come l’acqua che viene captata a scopo idroelettrico e che viene rilasciata nei corsi d’acqua a decine di chilometri di distanza (la nostra acqua della val Genova finisce alla centrale di Santa Massenza e poi nel lago di Toblino).
Questo non vuol dire che il turismo invernale debba puntare solo sullo sci. Anzi, diversificare l’offerta turistica è sicuramente la strada giusta, anche per le località che possono contare su vaste skiaree come la nostra. Ma per alcuni decenni, in inverno, per attrarre clientela internazionale bisognerà puntare ancora sullo sci. Ovviamente non in Panarotta, dove per troppo tempo sono state sprecate ricorse pubbliche in un inutile “accanimento terapeutico”!