Origine e significati della Danza macabra
Origine e significati della Danza macabra
di Luciano Imperadori
La danza macabra è l’affresco più misterioso e intrigante della chiesa di San Vigilio di Pinzolo e Giuseppe Ciaghi l’ha ben descritto in tutti i suoi particolari sia quelli evidenti, sia quelli nascosti.
La morte e la vita sono tra loro legate strettamente e l’uomo è l’unico tra le creature animali che ha consapevolezza della propria fine e in genere ne ha timore.
Però il rapporto tra l’uomo e la morte non è sempre stato di paura, di sconforto, di angoscia, quando non di negazione, come succede sempre più spesso al giorno d’oggi. Sembra paradossale che mentre alla televisione vediamo la morte quotidianamente in decine e decine di immagini virtuali, di omicidi, guerre, violenze di ogni genere, tanto che persino i bambini ne sono assuefatti, nella realtÁ la nostra societÁ spesso nega e rifugge il contatto reale con la morte.
Nel Medioevo invece per tanto tempo la tradizione cristiana vedeva, e vede ancora, nella morte un semplice “passaggio” verso l’altra vita, migliore dell’attuale. San Francesco nel Cantico delle Creature (1224) la considera addirittura “sorella” di cui ringraziare il Signore al pari del sole, della luna, delle stelle, del vento, della terra, del fuoco o dell’acqua: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale da la quale nullu homo vivente po’ skappare”.
Sembra che le danze macabre abbiano inizio nel Medioevo proprio a seguito della gravissima epidemia di colera che colpì l’Europa attorno alla metÁ del 1300. La gente cadeva come mosche e forse il richiamo ad un aspetto ironico, quasi irriverente, agli scheletri che accompagnavano personaggi di ogni etÁ , condizione sociale e grado di potenza, secondo qualche autore, era un modo per irridere e paradossalmente allontanare il pericolo incombente.
Per altri invece era una forma di ribellione, di protesta contro i potenti del tempo, che non a caso sono i primi ad aprire il”ballo della morte”, e un modo per richiamare il concetto dell’uguaglianza degli uomini, almeno davanti alla morte. Luigi Ottoni, col filò della val Rendena, lo ha ben interpretato nello spettacolo “La hora è fenita” di Brunetto e Lucio Binelli.
Una delle rappresentazioni più antiche di una Danza macabra si trovava nel cimitero della Chiesa degli Innocenti a Parigi nel 1426 ( poi andata distrutta ma riprodotta da un incisore) e ritraeva più di 30 figure umane: dal re al papa, al vescovo, all’imperatore, al prelato, alla damigella fino al fanciullo che si intrecciavano con altrettanti scheletri. Personaggi che, in buona parte, troviamo anche nella rappresentazione dei Baschenis così ben descritti da Giuseppe Ciaghi.
Questo per affermare (come ad esempio nel caso della NativitÁ della Chiesa di Giustino che si richiama al pittore bresciano Gerolamo Savoldo) che Simone II Baschenis era tutt’altro che un modesto pittore di periferia, ma aveva una notevole conoscenza, anche teologica ( basti pensare all’Ultima Cena di Santo Stefano con 13 apostoli, con l’aggiunta di San Mattia dopo la morte di Giuda, San Mattia dipinto anche a San Vigilio), e una visione artistica molto ampia.
Certo i Baschenis conoscevano il famoso Trionfo della morte dell’Oratorio di Clusone, in val Seriana, a pochi chilometri dal loro paese, Averara, nel comune di Santa Brigida in val Brembana, dipinto nel 1485, che anche nel volume di Ciaghi viene richiamato, ma la rappresentazione di Santo Stefano a Carisolo nel 1519 e di San Vigilio a Pinzolo nel 1539, hanno caratteristiche peculiari che si richiamano più al modello francese.
Ma c’è un significato nella diffusione delle Danze macabre in Europa, a cavallo del cinquecento, che è anche di tipo sociologico e che può farci riflettere anche al giorno d’oggi.
Jean Ziegler, un sociologo dell’UniversitÁ di Ginevra, autore di numerosi saggi sugli squilibri e le povertÁ nel Mondo causati da una finanza sregolata (come vediamo ogni giorno), sostiene che l’apparire delle Danze macabre in Europa coincide con l’avvento della societÁ consumista-capitalista. L’uomo, in questa societÁ che ha avuto origine proprio in quell’epoca, vale solo come produttore e come consumatore, pertanto con la morte non è più né l’uno né l’altro. Nel suo libro: “I vivi e la morte” del 1972, questo professore ultraottantenne scrive: ” La societÁ capitalistica mercificante (..) non si accontenta di privare l’uomo della sua agonia, del suo lutto e della chiara coscienza della sua finitudine, non si limita a coprire la morte di tabù, a rifiutare uno status sociale agli agonizzanti, a rendere patologica la vecchiaia e a nullificare gli antenati. Nega l’esistenza della morte (..) Negando la morte e la sua funzione di avvenimento,la societÁ capitalistica bottegaia porta a termine la reificazione dell’uomo (lo fa diventare oggetto)”.
La gente è spinta a produrre per consumare e a consumare per produrre, fino a consumare l’essere (persona) in nome dell’avere (cose precarie), pagando l’apparente benessere materiale con un reale e crescente malessere esistenziale.
Il famoso sociologo Zygmunt Bauman, scomparso in questi giorni, in una intervista sul Venerdì di Repubblica, di pochi anni fa, diceva a proposito della morte: (http://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/01/20/news/zygmunt_bauman_la_vita_una_partita_quotidiana_con_la_morte-131661947/)
“È la consapevolezza della fine che infonde ogni momento che la precede di un meraviglioso significato … perché ci incita e ci costringe a riempire le nostre vite con significati. È quella consapevolezza che ci spinge a cercare nuovi inizi.
La coscienza di vivere in un tempo preso a prestito che ci suggerisce di usarne ogni boccone in maniera saggia. Più che temerla, quindi, dovremmo esserle riconoscenti”.
Poi concludeva: “Viviamo nel culto delle novitÁ , con cui la modernitÁ liquida ci sorprende quotidianamente. Siamo attaccati ai nostri oggetti, ma ciò non ci impedisce di buttarli nel cestino non appena un nuovo modello esce. È un sistema piuttosto intelligente per espungere l’idea della mortalitÁ dalla nostra agenda quotidiana: ci sono così tanti eventi che non resta posto per altro. Ma l’effetto collaterale è che oltre alla morte stiamo smettendo di pensare anche a tutti i valori di lungo termine, dal Pianeta alle generazioni future. E questo è un alto prezzo che paghiamo per liberarci dal giogo della fine”.