Leggende e fiabe della Val Rendena
Il Bedù rosso di sangue
Un tempo le malghe costituivano uno dei capisaldi dell’economia delle nostre valli e quindi spesso divenivano oggetto di contese tra comunità confinanti. Contese che talvolta sfociavano in vere e proprie “guerre” di conquista, come capitò alle genti di Vigo e Villa Rendena.
Da alcune generazioni, ormai, le genti di Vigo e Villa erano in lotta per una questione di confini. “Sono troppo preziosi i pascoli e la malga del monte Stracciòla per lasciarceli scappare”, pensavano gli uni e gli altri e ogni occasione era buona per accapigliarsi e bastonarsi a vicenda.
I più violenti – ma anche, forse, quelli che in realtà potevano vantare maggiori diritti sulla Stracciòla – erano senz’altro i pastori di Vigo Rendena, che un giorno si decisero a chiedere aiuto agli amici di Daré, di Marzeniga (uno dei molti villaggi rendenesi andati distrutti per calamità) e di Javré per dare finalmente una lezione ai loro nemici di Villa, di Verdesina e di Bragònero (un altro villaggio andato distrutto).
Si era nel pieno dell’estate del 1324: mancava poco al mezzogiorno d’una calda giornata di fine agosto, quando la spedizione punitiva della gente di Vigo, spalleggiata dai loro temporanei alleati, giunse in vista della malga. I pastori e i malgari di Villa erano chiusi nella casàra a mangiare e proprio nulla lasciava presagire quello che stava per accadere.
Gli assalitori piombarono all’interno della malga con gran fracasso di randelli, urla e forche: i malcapitati di Villa vennero immobilizzati all’istante e ridotti al silenzio con alcune robuste bastonate in testa e sulla schiena. Non contenti, quelli di Vigo radunarono le vacche al pascolo (ne contarono ventotto, più un toro) e le spinsero nel burrone sottostante. Infine, distrussero tutto il burro e le forme di formaggio che riuscirono a scovare nella casàra.
Vi lascio immaginare lo sfracello di tante mucche dopo il lungo volo giù per il pendìo della forra – i vecchi raccontarono per anni dell’acqua rossa di sangue del torrente Bedù – e la rabbia di quelli di Villa nel vedere il loro lavoro, costato tanta fatica e sudore, svanire sotto l’impeto dell’ira.
Intervennero le guardie, che arrestarono i caporioni di Vigo, di Daré, di Javré e di Marzeniga: gli esagitati furono condotti a Trento e lì processati.
Il 20 settembre di quello stesso anno i giudici sentenziarono: i colpevoli avrebbero dovuto risarcire le ventotto vacche e il toro uccisi nel corso della spedizione, nonché restituire ai pastori di Villa tutto il formaggio e il burro andati distrutti.
La sentenza venne soddisfatta, ma il rancore bollì ancora per molte generazioni sotto la pelle di quelli di Vigo.
Val Genova – Diavoli e streghe in esilio
Che nessuno, al termine del Concilio di Trento, sapesse dove mettere tutte le streghe e tutti i diavoli che fino ad allora avevano imperversato nelle valli trentine, lo si può anche capire. Non si riesce invece a comprendere per quale motivo a qualcuno venne in mente di relegarli in perpetuo esilio proprio in Val Genova, in quella bellissima valle percorsa da un allegro torrente, che raccoglie l’acqua canterina di decine e decine di cascate grandi e piccole!
Fortuna volle che abbia pensato il buon Dio a riparare almeno in parte alle decisioni dei Padri conciliari e streghe e diavoli vennero immediatamente trasformati in rocce; per parte sua, i pensò il buon Neponuceno Bolognini, raccoglitore e narratore di antiche leggende, a dare un nome e un volto a ognuna di quelle rupi.
Ed ecco, allora, Zampa da gal, un enorme masso erratico che all’apparenza se ne sta immobile all’ingresso della valle, ma che non appena scorge di lontano un cristiano in arrivo, corre di filato da Belajàl, il re dei demoni, ad avvisarlo del malcapitato. Quella di Belajàl, capo dei diavoli, signore delle streghe, male dei mali, è la roccia più grande che si alza nei pressi della cascata del Nardìs. Accanto gli sta il fido Pontiròl, sempre pronto a obbedire al minimo cenno del suo padrone. Tocca a lui correre di qui e di là a portare gli ordini di Belajàl, convocare ora questa, ora quella strega, dirgli delle povere anime cadute nelle trappole dell’inferno, farlo ghignare di gioia crudele al racconto dei cento e cento scherzi combinati ai danni degli uomini. E che dire di Schena da mul? Quando s’imbatte in un viandante che procede lento e stanco su per la stradina della valle, gli si fa incontro gentile e premuroso, lo convince a montargli in groppa per risparmiarsi la fatica del viaggio e … via di filato tra le fiamme dell’inferno.
Ai Piani di Genova, un piccolo stagno formato da un’ansa del torrente bagna i piedi di alcuni massi: sono gli specchi delle streghe, che qui vengono ad agghindarsi e a ravvivarsi i lerci capelli, prima di correre a celebrare chissà dove i loro sabba satanici. Qui troviamo Calcaròt, il demonio che perseguita i ghiottoni torturandoli con quei terribili incubi notturni che ti fanno svegliare di soprassalto, col cuore in gola e un freddo sudore giù per la schiena. Là, invece, si erge, pronto a volare, un altro essere diabolico: è Còa da cavàl, mezzo basilisco e mezzo cavallo, che trascina nell’aria le anime degli imbroglioni e dei lussuriosi. Accanto a lui vediamo Manaròt, il subdolo demonio che si diverte a indurre in tentazione i boscaioli … (“Su, forza … quel boschetto è del Comune, perciò di tutti e di nessuno … taglia quegli alberi, chi vuoi che ti veda?”).
In Val Genova è esiliato anche l’Orco, pure lui trasformato in roccia: per secoli s’è divertito a spaventare i bambini disobbedienti a a tirar brutti scherzi alle fanciulle sventate. Adesso se ne sta muto e impotente, lui che, sotto sotto, proprio cattivo non sarebbe! Di ben altra stoffa è l’orrendo Palpa pegastro, che solo grazie ai malvagi sortilegi di cui va fiero è riuscito alla fine a render cieca una strega per convincerla a prenderlo come marito. poverino, che brutta fine ha fatto anche lui: torturato da una moglie nauseante e bisbetica e da un nugolo di figlie altrettanto fastidiose e linguacciute, si sfoga andando a caccia di pastori e boscaioli e seminando zizzania fra tutti coloro che gli capitano a tiro.
Sfuggente come un’anguilla e imprevedibile come il cielo di marzo è Calzetta rossa, diavoletto che ha fatto del furto una ragione di vita e della truffa un’arte. E poi c’è il Salvanèl, essere della foresta, figlio della natura, ghiribizzo del creato, che ama folleggiare con gli scherzi, abbagliare i creduloni, prendere per il naso chi ci casca.
Ed ecco le streghe: Aga, orrenda vecchia fattucchiera che sa leggere le carte o le linee della mano predicendo il futuro, ma che non è stata capace di prevedere quale brutta figlia – di nome Niaga – sarebbe nata da un suo lontano connubio con Zampa da gal! Forca, grassa, sudicia, con le unghie forti come artigli, che s’arrampica sui muri delle case diroccate e da lì, di notte, convince i passanti a rubare, ad appropriarsi delle cose d’altri, a prendere, insomma, la strada che conduce diritta alla … forca. Malòra, sempre allegra, sempre burlona, sempre … ubriaca. Guai al malcapitato che osasse guardarla in volto: vedrebbe una maschera oscena e bavosa e subito sarebbe preso dalla voglia di affogare il terrore nel vino e nell’acquavite … Baòrca, la strega con sei dita per mano, con una grossa gobba a punta sulla schiena e una uguale sul davanti … se capiti tra le sue grinfie, tutti i diavoli della valle entreranno nel tuo corpo e ti faranno fare le cose più immonde e sconce. Pebordù ha zoccoli al posto dei piedi e quindi la riconosci subito e puoi girare alla larga. Ma se, per sbaglio, i tuoi occhi incontrano i suoi, per te è finita: tarantolato da capo a piedi, saresti costretto a danzare senza mai fermarti, fuggendo di qua e di là, in preda alle smanie più feroci, finché il volo in un burrone porrebbe fine ai tuoi patimenti. Infine – ma non ultima – ecco la Grignòta, che se posa i suoi occhiacci su di te, vieni preso da una gran voglia di ridere e di far scherzi al prossimo. Ma se per caso ti capiterà di burlarti d’un buon fraticello o di un vecchio prete di campagna, i loro anatemi bruceranno la tua anima con una sola vampata e per te non resterebbe che la pace … dell’inferno.
Fortuna vuole che tutti questi mostri, oggi, siano disseminati in Val Genova sottoforma di rocce inoffensive. Comunque, a scanso di brutte avventure, quando ti troverai a passare di lì, parla sottovoce, non disturbare la quiete di quei posti e se proprio vuoi riposarti all’ombra fresca di un masso, non nominare il nome del Diavolo invano!
La strega del formaggio
Stava ormai camminando da più di due ore, la vecchina. Partita da Carisolo nel tardo pomeriggio, portando con sé solo due tozzi di pane secco, voleva giungere fino in fondo alla Val Genova, là dove i pastori accudivano al bestiame… era l’epoca, quella, in cui gli uomini portavano al pascolo le mucche solo per averne del buon latte: nessuno ancora conosceva i segreti per farne del burro, del formaggio o della ricotta. Ma l’anziana donna doveva accontentarsi: più povera ancora d’un uccellino affamato, sapeva di poter mangiare quei due pezzi di pane duro solo ammorbidendoli con un po’ di latte, ed ecco il motivo di quella lunga camminata.
La notte scese improvvisa, cogliendo la viandante nel punto più stretto della valle, là dove il sentierino si perde nell’intrico del sottobosco… era la “porta delle streghe”, quella, e infatti…
– Dove stai andando, vecchia? berciò da un albero una civetta, che subito dopo balzò a terra trasformandosi in un’orrenda strega.
La poveretta si fermò con un balzo al cuore: non aveva mai visto una strega, lei, e quella lì ai piedi dell’albero era veramente brutta, cenciosa e sporca, con una lunga scopa in mano.
– Vado dai pastori a farmi dare un po’ di latte… sono senza denti e il poco pane che possiedo è duro, troppo duro…
– Fammi assaggiare! – ordinò quell’altra facendosi ancora più vicina. Afferrò il pane secco che la vecchia le porgeva e… – Ma è duro sul serio, sembra di pietra! Su, vieni con la strega casàra!
Una forza misteriosa obbligò l’anziana donna a montare in groppa alla scopa: aggrappandosi al mantellaccio unto e lacero della strega, vide il terreno allontanarsi veloce sotto di lei, le punte degli alberi farsi lontane e il freddo della notte l’avvolse, obbligandola a chiudere gli occhi. Dopo un istante, i suoi piedi toccarono nuovamente terra e…
– Ecco, siamo arrivate sui pascoli della Val Genova – disse la strega. – Scendi e aspettami qui!
L’orrendo mostro tornò di lì a poco con un secchiello di latte. Fece cenno alla vecchina di avvicinarsi e di sedere ai piedi d’un masso di granito. Poi cominciò a lavorare. Con una mano scremò il latte, deponendo con cura la panna morbida e fresca in una piccola zàngola, che prese a cullare avanti e indietro, cantando nenie misteriose… “La luna ciara, el bosco scuro, zìngola zàngola, ho fato el buro”… Finito di cantare, la strega aprì l’arnese e ne trasse una pasta bianca, tenera come la cera: sempre usando le mani la squadrò per bene e sul panetto così ottenuto disegno con un’unghia il profilo delle montagne attorno e la luna alta nel cielo.
– Ecco, questo è il burro. Sentirai com’è buono, col tuo pane vecchio. Torna a casa e racconta pure alle tue amiche come si fa il burro con la panna: se vuoi sapere, invece, come si cuoce il latte per averne del formaggio, fatti vedere domani sera al solito posto, alla “porta delle streghe”. Ciao…
Il giorno dopo l’anziana poverella arrivò per tempo all’appuntamento e con un nuovo volo in cielo capitò ai piedi del macigno della notte precedente. Lì la strega accese un bel fuoco sotto un enorme pentolone, in cui versò alcuni secchi di latte, che prese a mescolare adagio adagio.
Quando fu ben caldo, vi aggiunse alcune gocce di aceto mettendosi a gridare:
– Présame… présame! …ed ecco il miracolo: il latte cominciò a rapprendersi in un cuore biancastro, sodo, profumato. La strega lo tolse dal paiolo, lo infilò in una forma circolare che strinse con forza lasciando cadere a terra il liquido superfluo, e…
– Il formaggio è pronto! Assaggialo e sentirai che buono. Va’ pure a casa e racconta alle amiche come si fa il formaggio e poi torna domani sera, che ti farò vedere come dal siero si ricava la poìna.
La notte seguente la strega insegnò alla vecchina a fare la ricotta usando il siero del latte, poi la congedò dicendole:
– E finalmente domani sera potrò insegnarti a ricavare lo zucchero da ciò che rimane dal latte lavorato!
Ma il giorno dopo un diluvio s’abbatté su Carisolo e sulla Val Genova, per cui la vecchietta pensò bene di restarsene chiusa in casa, sbocconcellando il formaggio che era riuscita a fare da sé, seguendo le indicazioni della strega. Tornò in valle la sera seguente, ma…
– Mi dispiace, carina – le disse la strega balzando a terra dal suo albero – ma hai perso l’occasione di imparare come si può avere del buon zucchero dal latte!
– Ieri sera pioveva a dirotto… come facevo a muovermi?
– Quando piove, piove – si mise a cantare la strega casàra – quando fiocca, fiocca… sol quando tira vento, allor fa brutto tempo…
E sparì nella notte della Val Genova, lasciando dietro di sé un dolce profumo di latte caldo.